La relazione tra perdita uditiva e declino cognitivo sta emergendo con chiarezza quando si parla di salute, soprattutto degli over 65. Diverse ricerche evidenziano che chi soffre di ipoacusia ha un rischio significativamente maggiore di sviluppare demenza, come ad esempio la malattia di Alzheimer. La Lancet Commission ha identificato la perdita dell’udito come uno dei 14 fattori di rischio modificabili che contribuiscono a circa il 40% delle diagnosi di demenza in tutto il mondo?. Recenti studi, tra cui il trial ACHIEVE pubblicato su The Lancet, che ha interessato 977 partecipanti tra 70 e 84 anni, mostrano che l’uso di apparecchi acustici può ridurre il declino cognitivo del 48% in 3 anni nelle persone più vulnerabili a questo deterioramento?.
Intervenire precocemente per trattare la perdita di udito, quindi, non solo migliora la qualità della vita, ma potrebbe rappresentare una strategia efficace e appropriata per prevenire la demenza. La relazione tra udito e funzioni cognitive solleva domande importanti per la sanità pubblica: in che modo la perdita di udito accelera il declino mentale e quali interventi potrebbero fare la differenza?
Ne abbiamo parlato a TrendSanità con il neurologo Claudio Liguori, UOC Neurologia Policlinico Tor Vergata di Roma e Ricercatore all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, Pietro Cino, Presidente di Commissione di albo nazionale dei tecnici audiometristi e Lorenzo Notarianni, tecnico audioprotesista, consulente della Commissione di albo nazionale dei tecnici audioprotesisti che afferiscono agli Ordini FNO TSRM e PSTRP.
L’isolamento uditivo e il declino cognitivo
Parliamo di sordità riferendoci non all’ipoacusia congenita, cioè presente fin dalla nascita, ma alla perdita uditiva graduale che spesso colpisce le persone in età avanzata. È un fenomeno, progressivo e silenzioso, che isola chi ne soffre e rende difficile partecipare alla vita quotidiana, interagire con il mondo che le circonda.
«Il problema di fondo connesso al calo dell’udito – ci dice Liguori – riduce sensibilmente l’interazione con l’ambiente esterno e quindi la possibilità di comunicare, ascoltare ed elaborare informazioni per poi rispondere in maniera congrua. Tutto questo rallenta i processi cognitivi in generale. Quando la perdita di udito si manifesta dai 50 anni in su, può causare un progressivo isolamento sociale che, se non affrontato, tende a cronicizzarsi. Questo isolamento influisce sulle funzioni cerebrali, rallentando l’attività cognitiva e aumentando il rischio di sviluppare disturbi come la demenza. Il cervello ha bisogno di restare attivo e stimolato, interagendo costantemente con l’ambiente e con le persone intorno. Mantenere il cervello “in allenamento” non significa ripetere esercizi, ma far parte di una vita sociale attiva che permette al nostro sistema cognitivo di rimanere reattivo e vigile».
Sordità e malattia di Alzheimer: il legame nascosto
«Un aspetto interessante è che la regione cerebrale coinvolta nell’elaborazione delle informazioni uditive, – continua il neurologo – è il lobo temporale, che è la stessa regione che si occupa della nostra memoria. È qui che la malattia di Alzheimer tende a svilupparsi inizialmente. Di conseguenza, ci sono diverse ipotesi che suggeriscono che una perdita di udito potrebbe essere uno dei primi segnali di questa malattia. Ciò crea una sorta di circolo vizioso: la riduzione dell’udito potrebbe essere sia una causa che una conseguenza della demenza. Quando l’udito diminuisce, le capacità cognitive peggiorano, il che a sua volta può facilitare lo sviluppo della malattia. È l’alterazione delle dinamiche cerebrali in network, del dialogo continuo tra le regioni cerebrali che si attivano e si deattivano in maniera sinergica e di concerto che influisce sul funzionamento cerebrale. Se una persona non sente chiaramente, potrebbe sembrare che abbia problemi di memoria, quando in realtà il problema è legato all’udito. Questo complica la diagnosi precoce e può ritardare l’intervento».
«Anche se non è stata dimostrata scientificamente una correlazione diretta tra perdita uditiva e la malattia di Alzheimer – interviene Cino – è ormai acclarato dai numerosi studi pubblicati su importanti riviste scientifiche che la perdita uditiva rappresenta un fattore di rischio modificabile. Mi spiego: una persona con disturbi uditivi oltre i 45 anni, ha il 7% di probabilità in più di insorgenza della malattia rispetto a un normo udente. Anche per questo motivo, sarebbe utile sottoporsi periodicamente a un esame audiometrico completo per evidenziare un calo dell’udito».
Il ruolo della prevenzione e dei trattamenti
Secondo Liguori «anche se non esiste un legame diretto tra perdita di udito e formazione delle placche amiloidee tipiche dell’Alzheimer, mantenere un buon livello di udito può avere un effetto preventivo. L’uso di apparecchi acustici o altre soluzioni terapeutiche per l’ipoacusia potrebbe ridurre il rischio di declino cognitivo, rendendo più facile per il cervello mantenere le sue funzioni attive. Inoltre, anche nei pazienti che già convivono con la demenza, migliorare l’udito può rallentare la progressione della malattia, migliorando la qualità della vita e riducendo comportamenti problematici come l’aggressività o l’agitazione».
«Un aspetto simile si osserva anche nei bambini con problemi di udito: spesso possono sembrare iperattivi o frustrati perché non riescono a dire che non sentono bene. Ciò può provocare comportamenti aggressivi, poiché non possono interagire adeguatamente con l’ambiente circostante. La stessa cosa può accadere agli anziani con perdita di udito e demenza: l’isolamento uditivo li porta a sentirsi distanti e incompresi, influenzando negativamente il loro comportamento e rendendo ancora più difficile mantenere relazioni sociali e un’interazione adeguata con il mondo esterno» spiega il neurologo.
«A un adulto con disturbi dell’udito – prosegue Cino – può capitare che i risultati dell’audiometria vocale non siano coerenti con il grado di perdita uditiva. Ciò è spiegabile con un’alterazione del processamento del messaggio verbale dell’area uditiva corticale. Questa condizione deve rappresentare un campanello d’allarme che richiede approfondimenti per escludere una diagnosi di Alzheimer. Una valutazione audiologica tempestiva, un’eventuale terapia protesica, se indicata, associata a una riabilitazione uditiva, possono mitigare questo particolare fattore di rischio, evitando probabilmente l’insorgenza della malattia o quantomeno rallentandone la progressione».
Apparecchi acustici contro il rischio di demenza
«Il trattamento tempestivo della perdita uditiva – interviene Notarianni – attraverso la protesizzazione acustica, potrebbe contribuire a prevenire o rallentare il declino cognitivo nelle persone a rischio di demenza. Sebbene la relazione tra ipoacusia e deterioramento cognitivo sia complessa, affrontare l’ipoacusia con tecnologie protesiche può ritardare l’insorgenza della demenza o attenuarne gli effetti. Tuttavia, il punto di forza risiede nella competenza del tecnico audioprotesista, che adatta e personalizza, in base alle specifiche caratteristiche audiologiche e stile di vita, gli apparecchi acustici per migliorare l’accesso ai suoni e facilitare la comunicazione. Un ambiente favorevole e il supporto dei caregiver sono essenziali per massimizzare questi benefici e ridurre l’isolamento sociale».
Nuove tecnologie
«Nel campo dell’audioprotesi, stanno emergendo nuove tecnologie che possono supportare le persone con ipoacusia associata a demenza, ma è importante ricordare che questi strumenti non devono essere considerati soluzioni autonome. Tra le tecnologie emergenti – continua Notarianni – e approcci innovativi ci sono, ad esempio, gli apparecchi acustici intelligenti, che utilizzano l’intelligenza artificiale per adattarsi automaticamente ai diversi ambienti sonori. Riescono a regolare il volume e identificare la direzione del suono in modo autonomo, permettendo un’esperienza d’ascolto ottimale in base alle capacità residue e specificità uditive della persona con ipoacusia. Un’altra frontiera è la teleaudiologia, che consente agli audioprotesisti di monitorare e regolare gli apparecchi a distanza. È vantaggiosa per chi ha difficoltà a raggiungere i centri acustici, garantendo così una continuità delle cure e la possibilità di interventi tempestivi, senza bisogno di spostamenti frequenti. Infine, ci sono le tecnologie di supporto alla comunicazione, come applicazioni che trascrivono il parlato in tempo reale o dispositivi che utilizzano segnali visivi per facilitare l’interazione. Tali strumenti, se integrati in un percorso di cura personalizzato, possono migliorare significativamente la qualità della vita di chi vive con perdita uditiva e condizioni cognitive complesse, dimostrando che il futuro del settore audioprotesico non è solo tecnologico, ma anche umano e centrato sull’assistito.
Quanto conta l’approccio multidisciplinare
La domanda che emerge da queste riflessioni è come si possa migliorare la collaborazione tra neurologi e tecnici audiometristi nella gestione delle persone con deficit uditivi e malattia di Alzheimer? Risponde Cino: «Sarebbe più corretto parlare di collaborazione multiprofessionale e multidisciplinare che includa diversi attori (neurologo, geriatra, otorino, tecnico audiometrista, tecnico audioprotesista, logopedista, ecc…). La collaborazione è efficace se si uniscono sinergicamente le competenze delle singole figure in un’ottica di miglioramento della gestione di queste persone».
Conclude Notarianni, «migliorare la collaborazione medici specialistici e professionisti sanitari è essenziale per gestire in modo efficace chi ha problemi di udito e una diagnosi di Alzheimer. Un approccio integrato consentirebbe una valutazione più completa e trattamenti più mirati. Una comunicazione efficiente tra i professionisti è essenziale per facilitarne il coordinamento: incontri regolari, discussioni sui casi clinici e piattaforme digitali per condividere informazioni possono fare la differenza. La formazione congiunta, inoltre, aiuterebbe a migliorare la comprensione reciproca delle rispettive competenze, mentre l’integrazione delle valutazioni audiologiche, neurologiche e psicologiche permetterebbe di sviluppare linee guida più accurate per diagnosi e trattamento. Un ulteriore passo avanti potrebbe essere lo sviluppo di piani di trattamento che coinvolgano attivamente familiari e caregiver, fondamentale per un’assistenza più efficace e completa. Secondo la Commissione Lancet, uno dei principali ostacoli per gli assistiti e i loro cari è la scarsa informazione e il ritardo nella diagnosi, spesso causati da stigma, negazione e mancanza di supporto. Un impegno congiunto per abbattere queste barriere, ispirato ai principi di cura della Slow Medicine, potrebbe contribuire al miglioramento della qualità di vita delle persone più vulnerabili».
Fonte della notizia: www.trendsanita.it