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L’Intelligenza artificiale al servizio dei caregiver: figli, fratelli, sorelle possono "entrare virtualmente" nel mondo dei loro familiari

C’è un’espressione che ricorre spesso nei convegni organizzati dal governo italiano che fanno da cornice teorica alla "Strategia sull’IA 2024-2026" appena varata: "L’Intelligenza artificiale deve essere a servizio dell’uomo e non viceversa". Una formula variamente utilizzata per alludere alla necessità di delineare confini e piantare paletti in quello che appare essere uno spazio infinito: di elaborazione, sviluppo, nuove possibilità ma anche di minacce alla libertà e ai diritti di chi lo subisce, non avendo tutti gli strumenti per governarlo. L’uomo al centro, dunque: certamente un concetto di buon senso non essendoci da queste parti nessun fan di Blade Runner che propugni l’invasione di replicanti umanoidi.

Ma ci sono molti modi per rendere le tecnologie intelligenti "umanocentriche", e per lo più hanno a che fare con quel terreno fertile – in Italia ancora troppo angusto – in cui l’innovazione si applica con successo allo sviluppo sociale. È qui che, con la giusta dose di investimenti e buoni progetti, l’uomo è messo realmente al centro dell’Intelligenza artificiale. E non solo a scopo difensivo. Negli ultimi anni, il New York Times ha raccolto storie di innovazione sanitaria e inclusione sociale attraverso le nuove tecnologie. Lo ha fatto nella serie "Fast Forward" raccogliendo decine di pezzi che parlano di giovani start-up, avviate con poche centinaia di dollari, che finiscono con l’attrarre finanziamenti milionari da fondi di venture capital. Come Embodied Labs, un’azienda tecnologica con sede a Los Angeles che utilizza software di realtà virtuale per formare professionisti sanitari che lavorano con gli anziani.

L’idea viene a una giovane donna, Carrie Shaw, quando alla madre, allora quarantanovenne, è diagnosticato l’Alzheimer in fase iniziale. "Come faccio a entrare nei panni di mia madre per aiutarla nel migliore dei modi?", si domanda la donna e, potremmo scommetterci – come lei – se lo chiedono tutte le volte, migliaia di figlie, fratelli e sorelle che a un certo punto della loro vita si ritrovano a diventare caregiver di un loro congiunto. A questo serve il software di Embodied Labs, a consentire di osservare – dalla prospettiva del paziente – il corpo e la mente di una persona con problemi legati all’invecchiamento. E così, poter "misurare" il declino cognitivo collegato all’Alzheimer oppure la perdita di vista e udito dovuta all’età o a malattie neurodegenerative come il Parkinson e la demenza senile. Tramite un visore, tanto lo studente di medicina quanto un infermiere che presta già soccorso oppure lo stesso familiare della persona sofferente, possono, per esempio, "entrare virtualmente" nel mondo ovattato di un malato di Alzheimer; o in quello di chi, a causa di una degenerazione maculare legata all’età, ha perso la vista o di chi è diventato non udente: un’esperienza "visiva immersiva" che consente a una platea molto variegata di utenti una migliore comprensione delle sfide che devono affrontare gli anziani colpiti da disabilità.

«È la convergenza tra invecchiamento, tecnologie emergenti e la necessità di trasformare i nostri vecchi metodi di formazione nell’assistenza sanitaria, adeguandoli ai nuovi bisogni di cura», ha spiegato Shaw con parole perfette. I fondi di avviamento per sviluppare la piattaforma e il software provenivano da una manciata di investitori informali, amici e familiari. Ma Shaw ha prima ricevuto 250 mila dollari dall’XR Education Prize Challenge, finanziato dalla Bill and Melinda Gates Foundation. E poi ha ottenuto un finanziamento iniziale di 3,2 milioni di dollari da diversi fondi di capitale di rischio, tra cui il WXR Fund, che investe in imprenditrici in ambito IA. La donna al centro, si potrebbe dire con una battuta se la questione non fosse così seria.

Un’altra storia positiva di investimento riguarda Daivergent, una start-up che fa incontrare le aziende tecnologiche con candidati affetti da disturbi dello spettro autistico: la piattaforma abbina queste persone con aziende che cercano candidati che possano lavorare nei dati e nell’intelligenza artificiale. La ragione è che gli adulti autistici, non di rado, avrebbero le capacità intellettuali per trovare un’occupazione ma, a causa delle loro abilità sociali, sono spesso disoccupati. Per questo, per esempio, possono concentrarsi su tipi di lavoro orientati ai dettagli, complessi e ripetitivi che sono alla base di gran parte della struttura dei dati che si trova nell’intelligenza artificiale e nell’apprendimento automatico.

Anche in questo caso, l’idea imprenditoriale viene dall’esperienza personale: Byran Dai aveva 24 anni quando promise alla madre, che morì meno di due mesi dopo, che si sarebbe preso cura del fratello minore Brandon, quindicenne, autistico. Sapeva che dopo i 22 anni, suo fratello non avrebbe più potuto godere dei servizi e dell’istruzione forniti dallo Stato. Così, ha fondato Daivergent.

L’AJ Drexel Autism Institute presso la Drexel University calcola che circa il 50 percento di chi ha disturbi legati allo spettro autistico ha avuto almeno un lavoro dopo il liceo, ma spesso si tratta di una posizione part-time e mal pagata. Per quanti hanno una disabilità più importante, solo il 14 percento ha un impiego nella comunità in cui vive. Daivergent, oggi, ha oltre 20 clienti aziendali e circa 1.100 candidati nel proprio pool. L’uomo al centro, per davvero.

 

Fonte della notizia: www.ilriformista.it

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